Quando ricevette quella telefonata, suo fratello Edoardo non sapeva che la voce dall’altra parte – agitata, spaventata, quasi irreale – avrebbe segnato un prima e un dopo nella vita di Simone Manigrasso. “Ho avuto un incidente – diceva Simone – Credo mi si sia staccato un piede”. Era il preludio di una tragedia che avrebbe potuto distruggere chiunque. Ma per Simone, quel momento ha segnato l’inizio di un percorso complesso, doloroso, eppure sorprendentemente luminoso.
Il corpo di Simone, a terra dopo l’incidente, sembrava non provare dolore. Solo un formicolio. Nessuna reazione all’urto, nonostante un piede quasi staccato. La mente, come spesso accade in quei momenti, si rifugiava nell’illusione: “Farò un po’ di ospedale, qualche stampella e poi tutto tornerà come prima”.
Ma il calvario cominciò poco dopo. Ricoverato d’urgenza, i medici provarono a salvargli il piede. Nessuna risposta. La febbre alta fece crollare ogni speranza. L’amputazione divenne inevitabile. Due mesi dopo, Simone uscì dall’ospedale. “Lì dentro stavo bene – ricorda oggi in un monologo teatrale in cui racconta la sua vicenda – Avevo attenzioni, affetto, una stanza tutta per me. Anche gli amici di vecchia data tornarono a trovarmi”. Ma fuori da quelle mura, la realtà fu brutale. Il primo sguardo – quello di una donna, terrorizzata alla vista della sua gamba mancante – gli lasciò un vuoto dentro difficile da colmare. Iniziò così un periodo buio. Per un anno e mezzo non uscì quasi mai di casa. Aveva paura di essere guardato, di diventare oggetto di compassione. “Ma allo specchio non mi sentivo diverso. Anzi, la mia protesi mi piaceva: nera, in carbonio, sembravo un robot. E chi non ama i robot?”.
Un giorno, Simone decise che non poteva più restare fermo. “Se non facevo io il primo passo, sarei rimasto bloccato per sempre”. Così si iscrisse in palestra. Ogni giorno camminava per un chilometro, si allenava e tornava a casa. Piccole abitudini, gesti semplici che si trasformarono in un’ancora. “Per tanti era una sciocchezza. Per me, la salvezza”. La vita gli regalò anche un amore vero. Una sera, accettò l’invito di un amico per uscire con una ragazza. Era nervoso, temeva lo sguardo di pietà. Ma lei lo stupì: “So della tua protesi. Che figo! Come funziona?”. Parlò tutta la sera di quel pezzo di carbonio come avrebbe parlato di una moto. Da allora, quella ragazza è al suo fianco da dieci anni.
Poi arrivò la corsa. Vede un video online: un uomo corre con una protesi. Vuole farlo anche lui. Ma le protesi sportive costano troppo. Con l’aiuto di un’associazione, riesce ad avere la sua prima protesi da corsa: non è una Ferrari, ma è sufficiente per iniziare.
All’inizio è dura. Dolore, vesciche, movimenti scoordinati. Ma dopo una settimana ce la fa. “Piano, ma corro”. La corsa diventa ossigeno, libertà, sfida. Un nuovo senso di sé. L’atletica cambia tutto. Simone non è più “quello senza un piede”. È un atleta. Vince titoli italiani, stabilisce record, entra nella nazionale. Gareggia ai campionati europei, poi ai mondiali. Corre sulla pista dove Usain Bolt ha fatto la storia. Conquista due medaglie d’argento. Ma il traguardo più importante, ammette, l’aveva già raggiunto prima. “L’ho vinto il giorno in cui sono uscito di casa per la prima volta dopo l’incidente. Quel giorno in cui ho deciso che la vita non mi avrebbe spezzato”.
Oggi, Simone Manigrasso è il simbolo di una resilienza autentica. Non costruita a tavolino, non raccontata per ispirare a tutti i costi, ma vissuta. Con dolore, con paura, con forza. “Lo sguardo degli altri ora non mi fa più paura”, dice. “Perché ora so cosa vedono: la forza della mente, la voglia di vivere, la capacità di non arrendersi. E questo non ha prezzo”.
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Last modified: 7 Maggio 2025